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Cima Coppi - Mayor Von Frinius

La Mayor Von Frinzius e Livorno: c’è un legame molto forte tra la compagnia e la città.
Questo gruppo è fortemente radicato nella città di Livorno e legato all’identità di Livorno, i giovani ne parlano, lo vivono, lo rappresentano venendo a far teatro con noi, venendo a vedere una prova o gli spettacoli. È diventato un elemento che fa parte del coro della città perché Livorno è una città che rende possibili le cose impossibili. Questa è la grande forza di Livorno ma anche la sua grande debolezza: la città rende possibile tutto ciò perché ai livornesi importa poco di quello che fai. Per questo ti danno uno spazio di indagine che da altre parti sarebbe vietato a priori.


Assistendo ai vostri spettacoli, non si può che notare due cose: l’utilizzo “esaltato” del corpo e della musica.
Usiamo il corpo in maniera dionisiaca, quasi fosse un elemento sessuale in sé che cresce, sprigiona energia, tira fuori una dimensione in cui si cerca l’aspetto formale dei passi di danza ma al contempo ognuno possa mantenere la propria stereotipia, perché noi crediamo che il soggetto con handicap non debba negare di essere handicappato ma possa amplificare ed estremizzare il suo modo di essere. Così, otteniamo come risultato uno specchio sociale positivo da parte del pubblico che applaude, legittimando il suo modo di essere nella sua condizione. Quindi noi non neghiamo la condizione di disabilità, al contrario la esaltiamo, noi non riduciamo l’handicap ma lo enfatizziamo.


Ma questo tipo di teatro è una terapia?
Da un punto di vista classico no, poiché secondo questa visione si tenderebbe a ridurre la malattia, mentre noi la esasperiamo e la portiamo al massimo. Ma è qui che, forse, avviene la vera guarigione. Partendo dall’insegnamento di Basaglia - la malattia mentale non è dell’individuo ma della società - se i soggetti non sono dentro il nostro meccanismo sociale, non è colpa dei soggetti ma di una società che non è in grado di sostenerli.


E la musica?
La musica, come diceva Schopenhauer, pervade, è invasiva e quindi non si può fare a meno di sentirla. Passiamo dalla musica classica a Tiziano Ferro ad autori profondi perché vogliamo mettere in questo cacciucco antropologico tutto quello che il mondo offre. Alla fine viene fuori quello che ho definito un “miracolo democratico”. La democrazia non credo sia un percorso razionale, basta vedere i grandi disastri che la nostra società sta facendo per imporre un percorso di un modello democratico formale. La democrazia è qualcosa che viene da dentro, che esplode. Il nostro tipo di teatro parte quasi da un’idea fascista: il regista è un dittatore che propone la sua visione artistica. Ma poi, cercando di ascoltare i movimenti del corpo e le vibrazioni del gruppo, egli cerca di costruire uno spettacolo che parte da questa transizionalità, come la definirebbe Winnicott, tra il suo bisogno e il bisogno del gruppo: ed ecco che alla fine viene fuori la vera democrazia. La democrazia esiste non se ti imponi sull’altro ma se hai bisogno dell’altro. Il soggetto con handicap vive in ambienti formalmente democratici, in cui apparentemente lo si fa scegliere: cosa vuol mangiare, come vestirsi. In realtà però, lui non decide niente né del suo tempo né del suo spazio perché non c’è bisogno di lui: anzi, se lui non c’è, l’operatore tira un sospiro di sollievo. Invece nel teatro se lui manca, viene meno un attore, un pezzo del mosaico importante, che ha responsabilità sociale nei contronti dello spettacolo e degli altri attori. Se è assente, mi deve dire perché non c’è, si deve giustificare come fanno gli esseri umani. Questa è la grande novità di questo tipo di teatro. Una vera e propria rivoluzione copernicana perché il soggetto diventa importante, inizia a esistere e diventa parte necessaria di quello che è il tentativo di costruire un opera d’arte.


Questo tipo di teatro è una forma d’arte?
Noi abbiamo la fortuna di lavorare con individui che sono opera d’arte di per se, perché in costante fuga da sé e dal mondo, al quale nonostante tutto riescono a resistere e sopravvivere, grazie alla loro stereotipia e al rifiuto della logica. Secondo me nel teatro, si ha l’occasione di mettere in scena questa intensità, e farle incontrare un applauso appagante e catartico. Tuttavia, abbiamo la sensazione che i momenti migliori, di completo sinolo artistico, sfuggano al pubblico per realizzarsi nelle prove: qua la dimensione personale non riesce a uscire o entrare con decisione nel linguaggio teatrale, e le risposte agli stimoli diventano irripetibili attimi di non-senso, ricchi di grottesco e poesia. Comunque sì, il nostro è un tentativo artistico: non importa il risultato ma ci deve essere una tensione, una forza, una potenza. Il tutto si racchiude nell’entrata in scena al Teatro Goldoni che parte da dietro invadendo e sorprendendo la platea, quasi prendendola alle spalle in una sorta di tradimento culturale. Lì portiamo la nostra emozione e il nostro pianto.


Mi hai sempre parlato di “scatola magica del teatro”, cosa intendi?
Prendiamo a esempio la fiaba di Peter Pan: la fiaba è sogno, ma il desiderio e il bisogno di rimanere sempre bambini, può diventare sindrome, quindi un problema. Il teatro è una scatola magica perché trasforma un problema in risorsa: l’entusiasmo e la libertà infantili vengono uniti alla responsabilità, trasformando Peter Pan in un bambino maturo. Questo esempio prende forma concreta nel momento in cui costruiamo le scene: i nostri attori, sono adulti con comportamenti infantili, e noi li aiutiamo ad essere Peter Pan maturi, senza però caricarli di preoccupazioni “adulte”. Come se li portassimo sull’Isola Che Non C’è.


Nel tuo caso, cosa si trasforma dentro la scatola magica?
Per me il teatro è sempre stato anche uno strumento per rendere potente ciò che ammiro. Credo che negli anni siano stati almeno quattro i miti incontrati nel corso della mia vita che ho potuto gettare nella scatola magica: i down, Igor Protti, le drag queen e Bobo Rondelli.


Partiamo dai down…
Da piccolo avevo un vicino di casa con la sindrome di Down, e lo invidiavo tantissimo! Non andava a scuola, quindi la mattina, quando mi svegliavo per andare lui poteva rimanere a letto. Oltretutto, una volta alzato, poteva giocare tutto il giorno. Sarebbe stato un sogno per me essere come lui.


E le drag queen?
Ho un solo ostacolo che mi blocca per diventare gay: non mi piacciono gli uomini. Ma il mondo gay mi affascina: colori, esagerazione, provocazione. Le Drag Queen si sposano perfettamente con il nostro modo di far teatro: esaltano la diversità.


Hai menzionato due personaggi cari alla città di Livorno.
Sì. Con Bobo ho sempre avuto un rapporto di amicizia non profonda. Bobo mi rende schizofrenico, non ce la faccio a pensare a lui come amico! Poi però, quando è sul palco, penso sia un cantante eccezionale, ne rimango rapito. Lo incontrai la prima volta ad una lezione di laboratorio teatrale: era venuto per combattere la sua eccessiva timidezza. Poi, è avvenuto e basta, le sue canzoni e la Mayor Von Frinzius si sono unite, dando vita a qualcosa di potentissimo (Io claun, te down, 2006, ndr).


Igor Protti invece rappresenta per me un dio traumaturgico: toglie il male. A 40 anni ho pianto per la prima volta per una partita di calcio. Ho sempre seguito il Livorno Calcio, vivendolo come incubo: serie A, serie B, la perenne lotta contro il Pisa. Mi ricordo, era l’ennesima partita al limite, e seguivo la radiocronaca. Poco prima del gol, il silenzio, per poi far esplodere tutta la tensione accumulata e scaricarla nel delirio totale. Piansi. Incontrai Igor per la prima volta di persona a un corso di psicoterapia. Riuscii a coinvolgerlo nello spettacolo; inutile dire che impersonò quello che è per me: un Dio che cura i mali. Solo una divinità avrebbe potuto fare il gol contro il Treviso!


E Marco Cavallo?
Già, Basaglia! Marco Cavallo ci rappresenta perfettamente: simboleggia la libertà. Abbiamo avuto l’onore di esibirci al suo cospetto (luglio 2011, replica di FR-AGILE ndr), e la gente non capiva. Non capiva cosa fosse quel cavallo azzurro di cartapesta, girato verso il palco in mezzo alla pineta della Rotonda d’Ardenza. Non capiva la sua importanza, la sua storia, quanto abbia da raccontare. La gente non sa che nel 1973, una volta costruito dai pazienti del manicomio aperto di San Giovanni, fu riempito dei desideri degli stessi, e utilizzato per sfondare il muro dell’Istituto. Ma alla fine fui quasi contento che nessuno capisse, in senso aristocratico: “Io so, voi no”.

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Lamberto Giannini intervistato da Marianna Sgherri

Tratto da "Chi è Mayor Von Frinzius? Una storia", 2013, Erasmo Editore

Sappiamo quanto possa essere noioso e a tratti difficile seguire lunghissimi testi - soprattutto leggendo al computer, su tablet o sul cellulare - quindi abbiamo pensato di farti avvicinare ai riferimenti teorici e filosofici che ispirano il nostro lavoro con un'intervista a Lamberto Giannini, regista della nostra compagnia. Qualora fossi interessato a saperne di più, ti consigliamo di acquistare il libro "Chi è Mayor Von Frinzius? Una storia" o il pacchetto libro + DVD "Vent'anni di Mayor Von Frinzius".

Riferimenti teorici & filosofici

Dove e quando nasce tutto questo?
L’idea del gruppo teatrale Mayor Von Frinzius nasce nel 1997, da una mia volontà di sperimentare il lavoro teatrale della marginalità sociale. Credo che nella marginalità ci sia un'energia in più, una scintilla particolare che non si trova altrove. Basta guardare due persone che sono ai margini della società perché considerati folli, perché sono detenuti o prostitute che litigano e che si muovono: i loro corpi raccontano qualcosa che è vitale, mentre quando fai teatro e vedi delle cose che sono normali, stereotipate o un continuo ripetersi osmotico di dimensioni sociali già viste, beh, in tutto questo la vita scompare.


Perché hai scelto il mondo dell’handicap?
L’idea del mondo dell’handicap mi è venuta anche dalla mia esperienza clownesca. Nel clown vai a sperimentare le parti che sono marcate di te, quelle parti che sono quasi delle maschere che metti in evidenza ed estremizzi, ma poi scopri che esistono dei clown naturali quasi truccati da Dio come i down e gli autistici, perché c’è una dimensione sacrale nella loro gestualità e nel loro modo di essere, nel loro modo di parlare. Tutto questo suscita la risata, una risata che la società tende a frenare perché ridere di un down o di un ragazzo autistico per le sue caratteristiche viene letto come dissacrante e offensivo. Io invece penso che ridere di loro sia un grande successo. Come diceva Adorno, supereremo la Shoa solo quando cominceremo a prendere in giro gli ebrei. Noi dobbiamo prendere in giro il ragazzo down, non in maniera derisoria ma in modo da marcare positivamente il suo essere, perché questo provoca ironia ed è un elemento positivo e rispecchiante.


Un tipo di teatro che esce dai canoni.
Ci rifacciamo all’idea di Pasolini: la borghesia ha provocato un genocidio culturale e solo l’arte può evitarlo a patto che esca dall’accademia, dal suo classicismo e dai canoni imposti. Per farlo dobbiamo cercare delle idee che siano veramente provocatorie, non formalmente, ma che lo siano in sé. Mettere in scena il dramma dell’handicap rendendolo grottesco, ironico, trasformare quella che è una dimensione di morte istituzionale in vita: questa è la nostra grande scommessa.


Come si sono sviluppati i laboratori teatrali?
All’inizio io ero il “Grande Altro”, gestivo tutta la situazione e anche negli spettacoli davo il via agli esercizi. Poi mi sono decentrato per creare una tensione in più: continuavo a gestire le prove in questo modo, ma durante gli spettacoli non ero più in scena e venivo sostituito da un operatore, in maniera tale che gli attori non avessero più un punto di riferimento saldo, in modo da poter giocare sullo spiazzamento, mettendo in difficoltà per creare una tensione positiva, utilissima a livello teatrale. Poi abbiamo deciso non di integrare ma di far incontrare. Non credo nell’integrazione, mi fa paura, la trovo quasi un’idea da campo di concentramento: una società funziona in un certo modo e io integro gli altri dentro questo tipo di società. Anche per quanto riguarda gli extracomunitari non credo che vadano integrati, ma che debbano essere incontrati perché è dall’incontro che nasce uno specchio reciproco.


Perché hai formato una compagnia mista con attori normaloide e altri con handicap?
Perché la normalità ha bisogno dell’handicap e molte volte perde di vista la ritualità. Il ragazzo down mangia a quell’ora, dorme a quell’ora, guarda quel programma televisivo. E in questo ciclo kantiano dell’esistenza trova una sua dimensione spazio-temporale che è estremamente rassicurante. Il normaloide è spesso preso da un ritmo frenetico che però è anche un ritmo vitale che manca al soggetto con handicap. Incontrando queste due esigenze diverse nascono degli scudi reciproci: il normaloide parla di sessualità, si muove in maniera libera perché tanto c’è il ragazzo con handicap che gli fa da scudo; e il ragazzo con handicap si lascia andare perché c’è “il normaloide” (come lo definisce Bobo Rondelli) che lo contiene.


Un percorso lungo 21 anni con tanti spettacoli realizzati: ma quali sono stati i passaggi più significativi?
Diciamo che ci sono stati almeno due passaggi cruciali. Il primo è stato con Da Sein (2002), che nel suo significato heideggeriano vuol dire esserci ora per la morte. È stato il primo spettacolo dove le complessità della normalità e dell’handicap si sono integrate in una ricchezza e in una vitalità profonda. L’altro spettacolo è stato Crudo Crudele (2006), che ci ha fatto capire che potevamo davvero avere una crescita artistica, confermata poi in Ma che colpa c’ha tu’ ma’? (2007), Ma ti ’eti! (2008), Di già? (2009) e Thanatos - quando sono morto, sono morto (2010). Abbiamo scoperto che la nostra poteva essere un’esperienza spendibile anche artisticamente nella visione esterna. Abbiamo avuto la fortuna e la forza di incontrare degli sponsor importanti: Aamps, Circoscrizione 2, Giorgio Chiellini, Gigi Buffon, Atl, Asa.

 

Fondamentale poi, è stato l’incontro con la Fondazione Teatro Goldoni. Innanzi tutto, il Goldoni è il teatro di Livorno e noi volevamo portare la nostra esperienza nel salotto buono della città. Non perché fosse un’operazione socialmente giusta, utile, conveniente e spendibile, ma con la convinzione di portare una proposta artisticamente vera e profonda; una vera e propria scommessa. Ed è nato questo coro dionisiaco, questo musical senza musica dal vivo che è Ma che colpa c’ha tu’ ma’? (2007), spettacolo che lavora molto anche sui sensi di colpa dei genitori dei soggetti con handicap. In questa forza dionisiaca è esploso qualcosa di fondamentale, che la compagnia si porta ancora con sé. Ma lo spettacolo che ha segnato la crescita qualitativa del gruppo in maniera notevole è Di già? (2009), uno spettacolo sul senso del tempo, sul modo di fare livornese che aveva in sé anche aspetti tragici, grotteschi e ironici molto profondi. Poi, Thanatos - quando sono morto, sono morto (2010) , un lavoro a sé stante. Thanatos è una tragedia sociale profonda e drammatica che parte dalle radici della cultura occidentale, dalla visione platonica del mondo, dal cercare di capire veramente cosa sia un cadavere, da cosa ci provoca l’idea della morte e della perdita del corpo. Il gruppo subì nel 2009 la perdita di uno degli attori più caratteristici della compagnia, una sorta di maschera napoletana, quasi da commedia di De Filippo, che è Nicola Cannone, attore e persona straordinaria, frutto di una famiglia straordinaria che è anch’essa un’opera teatrale in sé. Noi rischiavamo davvero di perderci in questo lutto, perché senza Nicola, erano venute a mancare quell’energia e quella vitalità che ci avevano da sempre accompagnato. In maniera anche egoistica ho cercato di far lavorare il gruppo in modo collettivo, quasi come un gruppo di in fusione sartriano. Questo, per far loro vivere la tragedia in maniera unica e collettiva, lasciando comunque ciascuno “libero” di avere il proprio personale dolore, anche alla luce dei rapporti diversi avuti con Nicola. Lo spettacolo, dedicato a ciò che muore, a ciò che non esiste più, alla morte dell’amore, alla morte di un periodo storico, alla morte di Che Guevara, finiva in pianto collettivo.

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(Continua dopo la foto)

Foto di Federco Bernini

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